Ficodindia di San Cono DOP

Se dovessimo indicare una pianta che rappresenti la Sicilia, che ne colora i campi e le vallate, penseremmo subito al ficodindia.

Eppure, come suggerisce anche il nome, questa pianta non è affatto originaria del subcontinente indiano, bensì delle Americhe – e in particolare del Messico, che come vedremo riconosce ancora oggi un alto valore simbolico alla pianta.

Abituata al clima arido dell’America Centrale, essa si è adattata perfettamente al clima siciliano, diventandone in pochissimo tempo simbolo.

Dipinta sulla tela scoscesa e grossolana delle pendici dell’Etna, qui sorge l’eccellenza del ficodindia dell’Etna DOP.

Ma oggi non siamo sul vulcano più alto d’Europa, bensì sui Monti Erei, di altitudine ben più contenuta, dove si incontrano le tre province di Enna, Caltanissetta e Catania.

E proprio a quest’ultima, sebbene rappresenti la propaggine più orientale della provincia etnea, si riconduce la produzione della specialità agricola in questione: il ficodindia di San Cono, che ha ottenuto il marchio DOP, dal sapore dolce e delicato.

Un’aquila e uno strano cactus

Come si accennava sopra, il ficodindia non è una pianta autoctona dell’isola, nonostante la grande diffusione sul territorio.

E non è neanche originaria dell’India, a discapito del nome che potrebbe trarre in inganno. E che trasse in inganno anche Cristoforo Colombo, che portò questa strana pianta nel Vecchio Continente nel 1493, al ritorno dal suo primo viaggio esplorativo.

Un viaggio che, come molti sanno, era destinato a scoprire una nuova via marittima per l’India e l’Estremo Oriente.

Per tale motivo, sbarcato ai Caraibi, l’esploratore genovese pensò di aver raggiunto le Indie, e da qui deriva il nome del ficodindia, che ancora oggi mantiene.

Non sappiamo con precisione quando l’arbusto spinoso apparve sul territorio americano, ma siamo certi che gli Aztechi, antico popolo dell’America Centrale, lo conoscesse e addirittura lo venerasse.

Durante una loro esplorazione verso nord, infatti, gli aztechi trovarono un’aquila sopra uno strano cactus e lì decisero di fondare la nuova capitale Tenochtitla, che in antica lingua azteca significa “terra dove abbondano i frutti del cactus che si erge sulla pietra”. 

Quello strano cactus è proprio il ficodindia, che oggi appare sulla bandiera messicana, sovrastato dall’aquila (simbolo di vita) che sconfigge un serpente, il quale rappresenta la morte.

Arma di distruzione

Questa è la versione storica del ficodindia, che quindi attraverso i viaggi coloniali arrivò in Europa, sulla via del ritorno delle Tre Caravelle, e che ben presto si diffuse in tutto il bacino mediterraneo (e soprattutto in Sicilia).

Eppure, secondo i racconti popolari, questa pianta fu portata in Sicilia dai Saraceni per annientare la popolazione siciliana.

Spaventati anche dalla forma e dalle spine che proteggono il ficodindia, i contadini pensavano fosse un frutto velenoso, una vera e propria arma di distruzione pagana.

Una dolorosa prelibatezza

Nulla di tutto ciò, poiché l’Opuntia ficus-indica (questo il nome scientifico, derivante dall’antica polis di Opunte) non è affatto tossica.

Di sicuro è dolorosa, per via delle sue spine che sovrastano le pale.

Queste ultime sono i veri e propri rami dell’arbusto, che però assomigliano più a delle foglie.

Le foglie, al contrario, sono proprio quelle lunghe e dolorose spine, che come ogni cactus – la famiglia di cui fa parte l’Opuntia ficus-indica – servono a proteggere dai predatori esterni la pianta, che essendo succulenta immagazzina una grande quantità d’acqua.

Ma se queste spine, seppur grandi e fastidiose, sono facilmente evitabili, ben più infide sono le glochidi: delle spine molto più piccole, ma dalla forma uncinata, che quindi si staccano facilmente dalle pale e dai frutti, e al contrario difficilmente si rimuovono dalla cute, anche perché spesso si spezzano all’interno.

Da ornamento a dolce frutto

Le preoccupazioni dei contadini siciliani erano dunque fondate, anche solo sulla forma esterna, e ci vorrà solo l’intervento divino, che trasformerà quel cactus pericoloso e letale in quel frutto dolce e saporito che tutti conosciamo.

In realtà, al di là dell’intervento divino, per diversi secoli il ficodindia fu visto come un semplice ornamento delle case e delle ville di campagna, diffuso a macchia d’olio su tutto il territorio grazie anche all’azione degli uccelli, che ne disperdono i semi.

Solo col tempo, i contadini supereranno quella reticenza verso il frutto, e in quel momento ne scopriranno le potenzialità trasformandolo in un marchio di fabbrica della Sicilia, una vera e propria manna come definita dall’agronomo Adrien de Gasperin.

Nel corso dell’Ottocento ci fu quindi un balzo in avanti nella produzione di fichidindia, soprattutto nella zona del vulcano che garantisce quel terreno brullo e arido tanto amato dalla pianta.

Il ficodindia di San Cono DOP

Nella zona di San Cono e dei Monti Erei, al contrario, la cultivar del ficodindia arriva soltanto negli anni Settanta del secolo scorso, ma fin da subito le aziende locali trasformano quella pianta ormai spontanea in una coltivazione specializzata, con dei terreni dedicati all’Opuntia che raggiunge anche le 600 unità per ettaro. 

Il merito degli agricoltori di San Cono, ma anche di San Michele di Ganzaria, Piazza Armerina e Mazzarino, è quindi quello di creare una coltivazione specializzata del ficodindia, per i quali il terreno è soggetto a livellamento per evitare ristagni d’acqua nocivi per un cactus.

La scozzolatura del ficodindia di San Cono DOP

Un legame con la tradizione è invece rappresentato dalla tecnica della scozzolatura, che consiste nel rimuovere (a giugno) le prime infiorescenze delle pale per ottenere dei frutti ancora più grossi e saporiti: i cosiddetti scuzzulati o bastarduni.

Nel caso degli agostani (cioè dei frutti non rimossi alla prima fioritura) la raccolta si ha da agosto a settembre, mentre per i bastarduni la raccolta si protrae fino a dicembre.

Dopo la raccolta, il frutto deve essere despinato attraverso dei rulli che spazzolano la buccia.

Caratteristiche del ficodindia di San Cono DOP

Grazie al lavoro degli agricoltori, ma anche alla conformazione del territorio degli Erei, si ottiene un frutto di pregevole fattura, in 3 diverse varietà:

  • Sanguigna, che come suggerisce il nome presenta una polpa dal colore rosso
  • Sulfarina, caratterizzata invece da una polpa gialla e consistente
  • Muscareḍḍa, dalla polpa bianca e delicata

In tutti i casi, si ha comunque un frutto dall’estrema dolcezza, ideale da mangiare da solo ma anche per la realizzazione di canditi, gelati, marmellate e dolci come i mustazzoli.

Per preservare la sua qualità e garantire ai consumatori un prodotto inimitabile, al ficodindia di San Cono è stato riconosciuto il marchio DOP.

Nella città di San Cono, oggi definita capitale del ficodindia, si tiene nel mese di ottobre la sagra dedicata al ficodindia di San Cono DOP.

Curiosità

I frutti scuzzulati sono denominati anche bastarduni, poiché secondo la leggenda un invidioso contadino tagliò i primi fiori del ficodindia del vicino, convinto di arrecare un danno: così non fu, come abbiamo ampiamente spiegato.

Il ficodindia, sacro agli Aztechi, era chiamato Napolli.

Malvisto invece dai contadini siciliani, cambiò reputazione per l’intervento di Dio, per cui durante la vendemmia i contadini mangiano il ficodindia in segno di devozione.

In realtà, questo deriva dalla volontà dei proprietari terrieri di far mangiare il frutto zuccherino a colazione per evitare che i contadini mangiassero l’uva, da cui deriva uno dei tanti detti.

Jinchi la panza e jinchila di spini.

In Sicilia i fichi d’India crescono perfino sui tetti delle case.

La vita è come il fico d’India, se non ti becchi prima le spine non puoi arrivare alla polpa.

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