Ficodindia dell’Etna DOP

In ambito cinematografico e anche nell’uso comune, si è soliti dire “buona la prima”.

Ebbene, questo non è il caso dell’eccellenza enogastronomica di oggi, per la quale si usa ancora l’antichissima tecnica della scozzolatura: si tratta di recidere le prime infiorescenze del frutto, in modo da ottenere dei frutti più grandi e saporiti.

Stiamo parlando di un metodo di lavoro tipico del ficodindia, una pianta di origine americana ma ormai simbolo della Sicilia grazie anche alla rivoluzione della sua vita avvenuta proprio sull’isola. 

In particolare, molto rinomate sono le ficurini (questo è il termine siciliano) che crescono ai piedi e sui versanti del più alto vulcano d’Europa.

I frutti si presentano in tre colori diversi a seconda della varietà, ma sono accomunate da una polpa interna succosa e da un gusto dolce e saporitissimo.

Questa eccellenza ha ottenuto la privilegiata denominazione DOP, a conferma della sua unicità.

Una pianta dolorosa

Quella dell’Etna è una delle varietà di Opuntia ficus-indica, una pianta che appartiene alla larga famiglia delle Cactaceae, conosciute con il nome di cactus.

Infatti, anche il ficodindia, come i suoi parenti, è una pianta succulenta (cioè in grado di immagazzinare grandi quantità d’acqua).

Per proteggersi dall’attacco di possibili animali in cerca di acqua, il ficodindia, come ogni cactus, ha sviluppato delle spine molto appuntite e dolorose, sebbene non tutte le varietà le presentino.

In realtà, a dare fastidio all’uomo non sono tanto le spine presenti sulle cosiddette pale – i rami caratteristici del ficodindia, che sembrano piuttosto delle foglie – quanto piuttosto le glochidi.

Si tratta di spine ben più piccole, a setola, presenti sia sulle pale che sui frutti.

Queste spine sono a uncino e si staccano facilmente dalla pianta, anche solo col vento, e sono molto difficili e dolorose da rimuovere dalla cute poiché si spezzano facilmente.

Sulle pale, appaiono in primavera dei fiori gialli, che in estate lasciano il posto ai frutti, disseminati dalle fastidiose spine.

Simbolo del Messico

Questo frutto dalla forma così particolare deve il suo nome scientifico alla città di Opunte, in Grecia, come riportato da Tito Livio. 

Secondo alcuni studi, la pianta sarebbe sorta nel Nuovo Mondo, in particolare in quelle zone dell’odierno Messico abitate dagli Aztechi, che chiamavano il frutto “Nopalli”.

Per la popolazione azteca, la pianta era (ed è ancora oggi) una pianta sacra dall’alto valore simbolico.

Infatti, in una delle loro escursioni verso il Nord, gli aztechi trovarono un’aquila appollaiata su di un cactus dalla forma bizzarra, e qui decisero di fondare la loro nuova capitale: Tenochtitla, che significa letteralmente “terra dove abbondano i frutti del cactus che si erge sulla pietra”.

Stiamo parlando proprio del ficodindia, che infatti oggi appare anche sulla bandiera del Messico, sotto le zampe della famosissima aquila, simbolo del sole e della vita, che trionfa sulla morte rappresentata dal serpente.

Arma dei Saraceni

Secondo questa interpretazione storico-scientifica, il ficodindia arriva in Europa grazie ai viaggi esplorativi del nuovo mondo, e in particolare nel 1493, anno del ritorno di Cristoforo Colombo a Lisbona.

Da qui nascerebbe il nome della pianta, che ricorda il fico nostrano ma dalle caratteristiche particolari e da un’origine geografica rivoluzionaria.

Tuttavia, i primi esploratori arrivarono in America alla ricerca di una nuova via per l’India e la Cina, per cui, ignari dell’esistenza del continente americano, pensavano di essere approdati nella penisola indiana.

Da qui deriva l’idea degli Indiani d’America e quindi anche del ficodindia.

Secondo altri, tuttavia, il ficodindia sarebbe arrivato in Sicilia per mano dei saraceni e degli arabi, quindi diversi secoli prima.

In accordo alle leggende locali, si riteneva che lu peri di ficurinia fosse una pianta velenosa, portata dai Saraceni per annientare il popolo siciliano, ma che Dio convertì quelle piante pagane in un albero da frutto dolce e saporito.

Invero, la leggenda lascia il posto alla realtà dei fatti.

Il ficodindia, in effetti, arrivato dalle Americhe, si diffonde presto nelle abitazioni come ornamento e non come cibo.

Col tempo, anche grazie all’opera degli uccelli, i semi si diffondono a macchia d’olio in tutto il bacino mediterraneo, e col tempo i contadini superarono quella reticenza dovuta alle spine e assaggiarono il frutto, rimanendone ammaliati.

Da quel momento in poi, si cominciò a puntare maggiormente sul ficodindia, che ormai si era naturalmente diffuso in tutta l’isola, diventandone un simbolo e colorandone i paesaggi, a interrompere schiere di ulivi e a cingere quasi come ornamento le case di campagna.

La scozzolatura del ficodindia dell’Etna DOP

Si tratta, come ogni cactus, di una pianta che predilige i terreni aridi e grossolani, che non ha bisogno di acqua o cure particolari.

Tuttavia, gli agricoltori siciliani hanno col tempo sviluppato una tecnica per ottenere dei frutti migliori: la scozzolatura (o scutulata), cioè un procedimento che consiste nel recidere, tra maggio e giugno, i primi fiori sbocciati dalle pale, in modo da ottenere successivamente delle fioriture (e quindi dei frutti) dalle dimensioni maggiori.

Questa tecnica antica viene adottata ancora oggi dai contadini che raccolgono il ficodindia dell’Etna DOP, che cresce nel parco naturalistico dell’Etna e comprende i comuni di Belpasso, Paternò, Camporotondo, Ragalna, Santa Maria di Licodia, Adrano, Biancavilla e Bronte.

La raccolta dei secondi frutti avviene invece a partire da ferragosto e si protrae fino a dicembre.

Dopo la raccolta, effettuata a mano con l’uso dei coppi, il ficodindia passa attraverso dei rulli che spazzolano la superficie, rimuovendo le spine senza danneggiare l’interno.

Varietà di ficodindia dell’Etna DOP

Sono tre le varietà che crescono spontaneamente nel territorio pedemontano etneo: sanguigna, sulfarina e muscareḍḍa.

Nel caso della sanguigna, come suggerisce il nome, la polpa sarà rossa e molto succosa.

La sulfarina presenta invece una polpa gialla e più consistente.

Infine, la muscareḍḍa è caratterizzata da una polpa bianca e delicata. In tutti e tre i casi, comunque, il frutto è protetto dalle dolorose spine che proteggono un interno dolce e fresco. 

Vista la sua dolcezza, il ficodindia dell’Etna DOP è una perfetta merenda, ma è anche alla base dell’antico liquore rosolio di ficodindia dell’Etna DOP.

Si può utilizzare anche per la realizzazione di confetture, canditi, gelati, ma anche di dolci come i mustazzoli.

Protagonista anche dell’omonima sagra che si tiene ogni mese di ottobre a Belpasso, il ficodindia dell’Etna ha ottenuto il prestigioso marchio DOP.

Curiosità

I frutti nati dopo la scozzolatura vengono detti “scuzzulati” ma anche “bastarduni”.

Quest’ultimo termine è nato da una leggenda secondo cui un contadino (per l’appunto il bastarduni), per invidia nei confronti del vicino, tagliò le prime infiorescenze, convinto di rovinare il raccolto.

Purtroppo per lui, dopo le piogge apparvero dei frutti ancora più grandi e succulenti.

Come detto poc’anzi, il ficodindia non fu visto subito bene dai contadini, ritenuto velenoso.

Ci volle così l’intervento divino, che li trasformò in saporiti frutti, e per devozione durante la vendemmia i contadini desinano con tanti fichidindia.

In realtà, questa usanza nasce dall’abitudine dei proprietari di riempire di zuccheri i propri contadini, in modo che non mangiassero l’uva che andavano raccogliendo.

Da qui nasce uno dei tanti detti riguardanti il ficodindia: Jinchi la panza e jinchila di spini.

E poi:

La vita è come il ficodindia, se non ti becchi prima le spine non puoi arrivare alla polpa.

In Sicilia i fichidindia crescono perfino sui tetti delle case.

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